"Guan guan, namaté, guan guan!"

"Guan guan, namaté, guan guan!" La donna sull'amaca si lascia dondolare dal vento, lentamente, facendo penzolare come un grande ventaglio il tessuto variopinto dell'abito che l'avvolge tutta, dalla capigliatura alle ginocchia.
Mi guardo intorno lentamente, quasi schiacciato dal grande cielo che mi sovrasta con la sua luce incontenibile.
Qui il vento sembra pulire tutto.
E' pulito il cielo, il fogliame, la risacca che risuona in lontananza. Oltre alla spianata di terra sabbiosa, dietro ai cespugli più distanti, intravvedo appena la sagoma lucida e allegra di un giovane del villaggio, che si avvicina lentamente lungo la spiaggia con il bilancere in spalla.
Avrei voglia di scoperte. Mi incammino sulle pietre piatte del sentiero che risale la collinetta, fino alla cima, da dove si vede il villaggio, e mi fermo a guardare in lontananza i muretti chiari dei terrazzi spazzati dal vento, infestonati di biancheria colorata che sbatte.
Quando rientro nel bungalow sono stordito dalla luce e dal vento. Per un attimo resto come ipnotizzato dall'improvvisa penombra, nel caldo odore del legno stinto. Da qui dentro il vento soffia più in sottofondo.
Accendo con calma la vecchia pipa, ma non riesco a star fermo sulla poltrona di bambù: devo aggirarmi come un cane innervosito anche qui, nella grande capanna circolare, dove perfino la disposizione dei pochi mobili riflette il mio maledetto stato d'animo da quando sono finito quaggiù: il lungo dondolo, i bassi armadietti, la piccola scrivania contro il muro, la cuccetta, il cesto in cui butto negligentemente il consunto cappello di paglia.
"Guan guan, namaté, guan guan!", mi ripete la donna passando lentamente davanti alla bassa finestra.
La cosa più irritante è quella specie di sfacciata serenità da cui questa gente non guarisce mai. Continuo ad aggirarmi; passo dal calendario della compagnia di navigazione appeso sopra al tavolino all'apparecchio radio con cui capto, talvolta, confuse conversazioni di naviganti. Sfogo un po' di nervosismo sbattendo il fornello della pipa sul largo portacenere di legno duro, ma la mia destinazione è un'altra: quella borsa di consunto cuoio nero, nascosta tra la cuccetta e il muro.
Improvvisamente mi sento di nuovo sfinito. Mi lascio cadere sulla poltroncina di bambù e godo mezzo minuto di silenzio che il vento mi concede.
Guardo la vernice scrostata delle imposte: tra uno scuro e l'altro la luce passa come lame, netta. Prendo il bicchierino di latta: ho ancora bisogno di acqua fresca.
I fasci della luce quasi mi ipnotizzano. Ogni volta che riesco vengo di nuovo stordito dal tuffo nel mare di luce.
Barcollo lungo il sentiero: adesso in mezzo alla lunga spiaggia si staglia una snella barca di pescatori, con le sue vivaci tinte rosse a l'alto rostro, isolata in mezzo al mare silenzioso della sabbia quasi bianca. Proseguo tra i radi cespugli, e incontro solo, oltre a un paio di cormorani, una giovane coppia che torna ridendo e sgocciolando dal bagno. Dopo il lungo cammino tra le conchiglie e l'acqua passo tra le barche in restauro, in mezzo agli odori di vernice, solventi e paraffina, sulla terra battuta dove giocano i ragazzini.
Siedo sulla panca dove si servono le bibite, e mi immergo nella vita sociale con le sue stupide chiacchere. Resto più di mezz'ora a discutere inutilmente con l'uomo della macchina. Non si capisce dove abbia trovato quel rottame impolverato che puzza di benzina. Qualcuno dice che l'ha sempre avuto, e che lo fa funzionare rinvigorendolo ogni notte con cerimonie magiche. L'uomo della macchina guarda incuriosito i tasconi della mia sahariana e ride; non capisce perché voglio andare ogni settimana a Makerè, visto che odio viaggiare, e che odio Makerè. Si capisce che mi attribuisce una tresca con qualche ragazza.
Non ce la faccio più: prendo la via del ritorno, questa volta dalla parte delle piante. Makerè, con la sua confusione, con le sue verande poco pulite. Con le floride, giovani prostitute che mangiano all'aperto e ti salutano ridendo. Con gli ufficetti dall'insegna di legno sulla strada principale e, più lontano, la piazza dove arrivano le corriere. Ma fino a lì io non mi spingo mai, e la persona che mi vede una volta alla settimana sa perché.
La strada dietro alle piante è più comoda, ma oltre al caldo devo sopportare gli odori intensissimi della vegetazione.
Com'è la canzone? Qui la sanno tutti:
Makerè ci trovi marito
Makerè ha diecimila volti
Makerè, mango e takciàl

La canzone mi risuona nelle orecchie: la sento cantare quando fanno mercato, tutti allegri di ritrovarsi in mezzo ai loro peperoni, alle loro spezie, alle loro pezze di stoffa dai colori più impensati. Un giorno mi sono sorpreso a tentare di cantarla anch'io. Per fortuna non mi ha sentito nessuno.
Appena spinta la porticina del bungalow mi lascio cadere pesantemente sul letto. Sono sudato. Adesso il vento non si sente più: l'umidità si è depositata perfino sulle grasse piante fuori dal bungalow. Mi rialzo lentamente tenendomi la testa. La ruvida tela del calzoni mi massaggia le cosce. Faccio due volte il giro del bungalow: il disordine dei miei pochi oggetti mi è oramai congeniale. Non posso aspettare: quasi meccanicamente mi accingo a prendere la scatola di bachelite dalla borsa, ma poi decido di riservare a stasera il mio rito, la mia sola consolazione. No, piuttosto è il momento di andare dalla vecchia a chiedere un po' di succo. Mentre mi avvicino la sento armeggiare, con la sua solita calma, tra i due muri anneriti della sua cucina all'aperto. Oramai sono abituato a bere i suoi gustosi succhi guardandola cucinare quella specie di grossi peperoni rossi, che cambiano colore emanando un fumo acre. Mentre bevo mi si avvicina come al solito il vecchio con il suo sigaro in bocca. Lui lo sa perché sono inseguito, sa anche che custodisco qualcosa, anche se non ha capito che cosa sia né perché sia tanto importante.
Non prendertela -mi dice- Se la tua missione fosse tanto urgente, perché saresti qui? E se non è urgente, che bisogno hai di partire?
L'afa mi entra nelle orecchie, nella testa. La nuvola di fumo del sigaro mi fa sognare. Ma certo, è vero, come ho fatto a non capirlo finora?
Il caldo comincia a dare segni di stanchezza. E' l'ora in cui mi infilo il costume e mi avvio alla nuotata pomeridiana, lasciando che la sabbia mi massaggi i piedi, passo dopo passo. La mia solita spiaggetta è deserta. Lo iodio mi entra nel naso.
Allora: io e lui, il mare. Finalmente sono di fronte a qualcuno con cui ci capiamo. Entro piano piano, faccio poche bracciate e poi mi immergo a bere una sorsata dell'unico liquido che mi tolga la sete.
Mi guardo intorno, e godo la vista confusa dall'acqua salata negli occhi.
Mi spingo lentamente verso la spiaggia, muovendo solo mani e piedi, e lascio che l'abbrivio mi faccia cozzare contro la riva, come un rigido corpo morto.
Sono un sottomarino.
Arranco sulla battigia: sono un pesante coccodrillo.
Lungo il sentiero la donna, con un cesto di biancheria in testa, senza fermarsi si gira appena a guardarmi: - Te l'avevo detto, namaté, guan guan!
Mi rotolo nella sabbia asciutta, che mi si appiccica tutta sulla pella bagnata.
Ora non ho più missioni: io sono l'uomo-sabbia.

Paradossi poco ortodossi