"Federalismo"

"Federalismo" viene da "foedus", "patto", e già nel 1793 ("Il nuovo postiglione", p.763) significava "tendenza politica favorevole alla federazione di più stati".
E allora che senso ha intenderlo esattamente nel senso opposto, come suddivisione delle competenze amministrative e politiche dentro uno stato?
Forse la risposta va ricercata in una curiosa scelta del partito che ne ha più parlato, la Lega Nord, la quale non ha trovato meglio da adottare, come inno, del coro dell'opera che Verdi dedicò a Nabuccodonosor, cioè Nabucadrezar.
Conosco le parole del pezzo, perché lo canto col mio coro. La loro comprensione è spesso ardua, e l'interpretazione potrà essere soggettiva, ma non c'è dubbio sul loro significato dichiaratamente sionista.
Dunque Bossi ha voluto con ciò sfidare Al Fatah o Hamas, senza paura che gli mettano una bomba alle sedi del partito?
Non ditegli, comunque, che quelle parole furono intese dai simpatizzanti di Verdi come un inno agli ideali dell'Italia unita...


"Tolleranza"

"Tollerare" viene dal latino "tollere", dalla radice TELA che significa "sollevare". E infatti anche in italiano significa "sopportare".
In scienza e tecnica "tolleranza" indica quel margine entro il quale, per esempio, vale una certta legge o puo' verificarsi un dato fenomeno.
E' ovvio che un ponte che puo' reggere una tonnellata non crolla sotto una tonnellata e mezzo, cosi' com'e' ovvio che se reggesse dieci tonnellate non sarebbe piu' la sua tolleranza, ma una svista dell'ingegnere che l'aveva tarato.
Ma quando si passa ai rapporti umani, cosa vuol dire tolleranza?
Se vuol dire quel margine di sopportazione che dobbiamo sempre avere l'un l'altro, e' ovvio che senza tolleranza ci saremmo estinti da un pezzo.
Ma immaginate che vi si dica: - Tu non avresti il diritto di vivere e di lavorare qui, pero' io TI TOLLERO.
Ecco, qui si configura un uso del termine come "parola malata", come dico io, cioe' con significati forse un po' distorti che forse sono traccia di un'ambiguita' morale.
Certo la "tolleranza" umana, nel suo senso migliore, significa "accettazione di chi e' diverso da noi".
Pero', cosi' come in fisica, mi sembra che la tolleranza deva per sua natura avere limiti. Una "tolleranza illimitata" sarebbe una contraddizione in termini.

Nel nostro paese, quale tipo di tolleranza si predilige?
Spesso ho l'impressione che si tenda a una tolleranza senza limiti verso chiunque possa in qualche modo venir configurato a ragione o a torto come perseguitato, reietto, emarginato, vittima.
Cosi', la legge italiana difende fino all'esasperazione il debitore e l'inquilino (non entro in dettagli giuridici, ma in pratica e' cosi'). Il fatto che il debitore sia magari un truffatore che approfitta dei varchi della legge, o l'inquilino sia piu' ricco del proprietario bisognoso, non sposta questo ferreo principio giuridico, grazie al quale abbiamo sempre l'illusione di aiutare una povera vittima.
Cosi', c'era perfino una banda di sieropositivi che a Torino continuava a far rapine perche' i sieropositivi non venivano carcerati.
Ma forse il caso piu' emblematico di concetto distorto della tolleranza e' quello che riguarda gli zingari.
A giudicare dalle cronache, si direbbe che ben pochi rappresentanti di questo fiero popolo possano giustificare i propri introiti con lavori onesti, e quasi nessuno in regola. Le nostre istituzioni pero' non solo "tollerano" zingari italiani ed extracomunitari, ma prevedono spazi per le soste dei loro nomadici percorsi. Le proteste di chi abita nei pressi, a questo punto, possono essere giudicate "intolleranti"... ma solo da chi abita lontano. Ricordo un negoziante del centro che diceva "Se solo potessi mettere le mani su quegli zingarelli, li trascinerei in un portone e gli darei una bella lezione". Un minuto dopo, sono stato anch'io testimone di un assalto ai passanti a scopo di borseggio, senza alcun rischio per i piccoli "rapinatori".
Ma qual e' il rovescio della medaglia di questa "tolleranza", parola e concetto malato?
Tolleriamo che gli zingarelli saltino addosso ai passanti, ma in compenso tolleriamo anche che evadano l'obbligo scolastico, cioe' che crescano senza conoscere la cultura del paese nel quale vivono, e quindi senza possibilita' di integrazione.
Tolleriamo gli zingari, purche' non ci venga ricordato che vivono in condizioni materiali da terzo mondo, e con un'ASPETTATIVA DI VITA da terzo mondo: a quarant'anni uno zingaro e' un vecchio.
Infine, un uso esemplare per criminale inganno e ipocrisia: i produttori di sigarette, in una loro pubblicita', parlavano astutamente di "tolleranza tra fumatori e non fumatori".

In questi giorni si sta svolgendo a Parigi un importante forum internazionale su "L'intolleranza".
Nel suo intervento Le Goff ha detto:
"Ancora oggi, la tolleranza implica l'idea di innaturalita', di anormalita', comporta un certo sforzo per accettare un'idea, un comportamento, una persona che, in un primo momento, suscita una reazione di rifiuto. La tolleranza e' un traguardo, una conquista".

Ecco, il mio timore e' che, nella questa confusione di concetti che spesso sorge, chiamiamo tolleranza quello che e' un traguardo sbagliato e una falsa conquista.


"Olocausto"

Olocausto: "sacrificio supremo nell'ambito di una dedizione totale a motivi sacri o superiori"; "Sacrificio alla divinità, in cui la vittima veniva interamente arsa".
Così il Devoto-Oli, e definizioni analoghe si leggono su tutti i principali dizionari. Alcuni di essi, però, hanno recentemente aggiunto un altro significato: "Olocausto" come strage degli ebrei operata dal regime nazista.
Che cos'hanno a che vedere l'accezione tradizionale e quest'ultima che va di moda in questi anni?
Si può ravvisare nello sterminio nazista un intento religioso? O una superiore finalità, che conferirebbe un'utilità al "sacrificio"?
A me non sembra, perciò mi chiedo il perché della fortuna di questa parola in questa impropria accezione.
La spiegazione più semplice è che venne scelta come titolo di una serie televisiva che ricostruiva con attori le vicende degli ebrei deportati nei campi di sterminio. E si sa che, come diceva Jannacci "La televisiùn la gà la forsa de un leùn".
Eppure sospetto che debbano esserci anche ragioni più profonde.
Lo sterminio nazista costituisce per molti aspetti la più grande barbarie registrata dalla nostra storia. La crudeltà con la quale le vittime vennero destinate, trasportate, selezionate, torturate, costrette spesso a farsi del male a vicenda o a collaborare con il detentore per sopravvivere qualche giorno, nell'impossibilità di qualsiasi tentativo di fuga o di ribellione, suscitano un orrore che la maggior parte di noi stenta a reggere.
Forse si può intuire perché, negli anni che seguirono la guerra, i sopravvissuti non avevano voglia di parlare di tutto ciò, o gli altri non avevano voglia di ascoltarli. E molti si sono decisi a parlare della propria esperienza solo ora, magari (come una deportata milanese) perché da parte di qualcuno si sente dire addirittura che tutto ciò non è vero.
Ma a chiunque viene voglia di dire "non è possibile, non può essere accaduto, non voglio crederci".
Allora, una parola che sembra attribuire agli orrori del nazismo un significato religioso, sacrificale, è un modo di allontanare un pochino la realtà storica, di respingerla verso un piano lievemente metafisico, come per diminuire l'angoscia che suscita.
In questi decenni abbiamo assistito con stupore al fenomeno del cosiddetto "revisionismo storico", cioè dell'affermazione che lo sterminio nazista non ci fu, che le morti nei campi di concentramento furono dovute a malattie, o che comunque i numeri dello sterminio sono stati artatamente esagerati di molto.
La reazione più logica a queste affermazioni sarebbe di opporre la realtà delle inoppugnabili prove materiali, delle testimonianze, dei numeri. Sicuramente è stato fatto (vedi i link di I-TAL-YA).
Ma per lo più si è reagito con lo SCANDALO. Mentre il negare che la terra sia rotonda apparirebbe ridicolo, il negare la realtà dello sterminio nazista sembra non un'OFFESA ALLA STORIA, ma un'OFFESA AL POPOLO EBRAICO.
In Germania è stato addirittura vietato affermare che lo sterminio nazista non sarebbe avvenuto: una sconcertante eccezione alla democratica libertà di parola.
Ma supponiamo per un minuto che al posto di "olocausto" si dica "la grande sfiga".
Avrebbero senso affermazioni dl tipo: "la grande sfiga è un patrimonio del popolo ebraico, che nessuno ha diritto di negare"?
Eppure ho letto questo genere di affermazioni.
Le persecuzioni naziste sono state per gli ebrei (e per le altre vittime, naturalmente) una colossale sfortuna, perché vengono sentite anche come "patrimonio"?
Le risposte non sono facili, ma la più interessante si comprende solo alla luce del problema dell'identità ebraica. E' noto che con l'assimilazione, la perdita di importanza della religione, l'esistenza di uno stato ebraico, molti ebrei si chiedono cosa significhi, in pratica, per loro essere ebrei. Anzi, personalmente tendo a definire "ebreo" chiunque si chieda che cosa significhi per lui essere ebreo.
La coscienza, o quasi il culto delle sofferenze patite dalle generazioni che ci precedono giunge a costituire una ragione, quasi un pretesto, per rafforzare un'identità in crisi, un'identità non più tenuta viva dalle credenze religiose, né da tradizioni che da molti vengono sentite e seguite sempre meno. Forse qualcuno ne ha parlato, ma io ho letto su questo argomento solo un articolo di Fiamma Nirenstein di diversi anni fa.
Come ha detto Elie Wiesel, se non siamo in grado di capire fino in fondo le ragioni degli orrori del nazismo, è importante conservarne il ricordo e la coscienza. Secondo me la parola "Olocausto" rischia solo di offuscarle.

Paradossi poco ortodossi